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domenica 29 settembre 2013

Se passi di qua non fermarti.


Se passi di qua non fermarti. Non aspetto notizie, non ne voglio più. Non posso che fare un fagotto del mio corpo come si fa quando si ha il terrore di alzare gli occhi. Non voglio sapere. Sarebbero le stesse notizie che ogni donna riceve nei giorni di pioggia. E anche oggi piove. E anche oggi Laura piange e io con lei, perché solo noi conosciamo le nostre storie che han viaggiato insieme e insieme han corso. E insieme sono arrivate al capolinea. Oggi io non vado, non andrò più. Chissà se Laura ha un altro biglietto da far timbrare, un'altra spinta che la aiuti a non ingobbire. Laura è malata, ha una malattia che si è propagata da particelle virali e le ha devastato il corpo. Laura si è innamorata. E questa malattia la sta uccidendo. Sapere che il virus si insinua piano piano, si adagia dove trova posto e da lì non riesci più a scacciarlo, a debellarlo, non porta certo a starne lontano. E così è successo a Laura e così è successo a me. Non c'è rimedio a questa malattia, si può solo soccombere e sdraiarsi sotto il cielo che ti bagna le ossa ormai zuppe di fatica. Stesa sotto questo cielo, vittima come me di un dolore insopportabile, non riesco a pensare se non a lui, al mio pezzo di cuore malato, malato di lui. Laura non ce l'ha fatta, la sua vita è stata gracile e l'infermità delle carezze mancate l'hanno afflosciata tremante, stremata. Ora più non sa, la sua mente non è più, la mia mente non è più, inginocchiata sotto un manto di pioggia.




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martedì 3 settembre 2013

Io e te, sì. Io e te, sempre.

Io e te, sì. Io e te, sempre.
Parole ad effetto.
Parole.
Maria non si avvicinava al cellulare da più di mezz'ora, a quella maledetta scatoletta tecnologica che aveva imparato ad odiare. Non ce la faceva, era pesantemente incollata alla poltrona del salotto buono, sorrise, ripensando di aver scimmiottato le parole di sua madre. Il salotto buono era quella stanza che non usava nessuno, sprecata e invasa dall'odore di vecchio. Sapeva che nessuno avrebbe chiamato. Immaginava. Immaginava di veder scritto quel nome e cognome, perché l'amore ha sempre un'identità precisa. Accese l'ennesima sigaretta, consapevole che erano solo dicerie riguardo il fumo che distende i nervi. Tossì, maledendo il giorno in cui aveva iniziato a fumare. Anche se le ricordava molto la sua giovinezza. Spaziava con la mente, capendo che se si fosse fissata nel pensiero di lui, poteva impazzire. Lui, nessun pensiero oltre, lui, nessun poeta avrebbe potuto descrivere il suo stato d'animo, nessuna parola avrebbe potuto soppiantare i suoi sentimenti. Era un'anima in pena, anche se non sapeva dare una connotazione reale a questo modo di dire, ma lo era, era in una pena angosciante. Il cellulare era muto. Il desiderio di spegnerlo era forte, ma la paura la faceva da padrona. Se lo avesse spento, non avrebbe ricevuto messaggi da altre persone, così non le sarebbe salito il cuore fino alla gola, per niente. Per niente, sì, nessuna notizia avrebbe potuto farle dimenticare l'appuntamento con il resto della sua vita. Vita così vuota senza lui, senza sue notizie. Il cuscino della poltrona era verde, un verde molto pallido, colore indefinito. Non amava quei colori tenui, erano uno schiaffo alla bellezza del rosso, del giallo, dell'arancione, toni forti, toni decisi che spiccavano come tante macchie di vita. La vita che avrebbe voluto sin da piccola, decisa, visibile, in netto contrasto con l'ambiente circostante, con la sua famiglia, spenta, quasi a scusarsi di esistere. No, non accettava il solco profondo che la spingeva fuori dei cliché, donna, vulnerabile, romantica, tranquilla. Non era mai stata nulla di tutto questo. Non lo sarebbe mai stata.



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